Omelia del vescovo Egidio per la Messa della sera del giorno di Pasqua 2020
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LA SERA DI PASQUA, FRA DOLCEZZA E PAURA
12 aprile 2020 – Santuario di Vicoforte

 

Mi verrebbe da dire: come è bella la sera di Pasqua!
Tutto si è compiuto, ed è un tutto di straripante potenza e gioia. La vita ha trionfato, la pietra è stata rimossa, Dio si è misteriosamente sottoposto all’umiliazione della Croce in Cristo Gesù, ma Cristo Gesù è risuscitato dai morti e ci ha coinvolto in questa vittoria definitiva!
Per un credente, dovrebbe essere il giorno più felice dell’anno: quello che gli assicura la vita eterna, e che, comunque, vede Gesù risorgere, e proiettare la sua e nostra umanità in una nuova dimensione.

La liturgia, con il ripetersi del canto dell’Alleluja dice festa e gioia.
Le letture stesse sono tutte intessute di esultanza grande. Basterebbe rileggere il sunto dell’esperienza terrena di Cristo degli Atti degli Apostoli: “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui (...) Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio”; il Salmo lo dice con la forza della poesia. Dichiara che il Signore è buono e che il suo amore è per sempre, e poi usa un’immagine divenuta indelebile: “La pietra scartata dai costruttori / è divenuta la pietra d’angolo. / Questo è stato fatto dal Signore: / una meraviglia ai nostri occhi”.
San Paolo ci parla della pasta nuova, simbolo della vita rinnovata, che si afferma nella sincerità e verità della Pasqua.

EMMAUS: IL SIGNORE CAMMINA CON NOI
E poi c’è la sera di Emmaus, così famosa perché così consolante.
Con il tocco lieve che solo il poeta sa trovare, Luigi Santucci, facendo parlare Cleopa, uno dei discepoli che racconta l’accaduto, scrive: “La strada è finita. Finito anche il giorno. Mai come ieri sera avrei voluto che la luna non si arrampicasse sui tetti. Emmaus è un villaggio dove sono stato tante volte: non mi ero mai accorto che in nessun altro posto della Galilea la sera fa più dolcezza e paura insieme”.
Anche lì, nel resoconto che i due viandanti fanno a Gesù, ignari di parlare con lui, il suo ritratto è rapido ed efficace. Lo definiscono “profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”; ricordano la crocifissione e la fiducia che avevano riposto in lui: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele” e poi, con una innegabile dose di incertezza, alludono agli eventi del mattino: “”Alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo”. Dopodiché, Gesù spiega loro le Scritture e si lascia riconoscere spezzando il pane. Scrive sempre L. Santucci: “Sembrava che in quei pezzi di pane entrassero come per magia le sue mani, poi tutto lui. In pochi attimi è scomparso ai nostri occhi, ed è rimasto solo il pane. Così l’abbiamo riconosciuto quando era troppo tardi”. Per cui essi partono alla volta di Gerusalemme e danno inizio all’annuncio della Resurrezione, del Risorto.

LA NOSTRA SERA DI PASQUA
Davvero, la sera di Pasqua è - liturgicamente parlando - una sera bellissima. Eppure...
Eppure oggi ci riesce più difficile pensarlo e dirlo. Anzi, per pensarlo e dirlo dobbiamo astrarci dalla condizione in cui ci troviamo. Chi celebra è solo; chi assiste, assiste da casa, su un video. Intorno, morte, dati tambureggianti, incertezza economica e sociale, la vita improvvisamente fragilissima e sospesa.
E allora? È Pasqua o non è Pasqua? Dobbiamo, possiamo essere felici o - almeno per quest’anno - l’annuncio della Resurrezione è così lontano dalla nostra esperienza quotidiana che ci appare quasi estraneo, quasi incomprensibile?

Non voglio dare risposte banali, facili, consolatorie.
Tante case sono state lambite dalla morte a poca distanza da noi e anche da noi, e il mondo intero deve fare i conti con una pandemia che miete migliaia di vittime; non sapremo quando torneremo a una vita normale; improvvisamente siamo precipitati in una sorta di Medioevo che ci ha gettato in faccia la nostra precarietà.
Tutto ciò forse meglio starebbe ai piedi della croce del Venerdì Santo, che non davanti al sepolcro vuoto. Ma proprio qui sta la scommessa cristiana, che ha attraversato tanti secoli e anche tanti altri momenti drammatici. Quel sepolcro vuoto è dentro la Storia ma anche al di sopra della Storia. La riscatta e la salva. Anche in giorni in cui la malattia e la morte infuriano.
Vorrei dire: niente paura, perché anche nel caso del virus che ci assedia si tratta esattamente di quella morte che la Pasqua ha sconfitto per sempre. Proprio di quella.
Ci crediamo?

LA PASQUA CI CHIEDE FEDE, SPERANZA E AMORE
Il punto sta qui. E, per crederci, serve semplicemente un di più di fede. Questa Pasqua anomala ci chiede questo. Di credere con più forza, di non lasciarci spaventare, di non cedere. Il nostro Dio è il Dio della vita anche dentro un contagio, come lo è stato, nei secoli, durante guerre, carestie, pestilenze. Se la Pasqua è vittoria sulla morte, lo è anche in questo nostro tempo martoriato, lo è sempre.
Se mai, vorrei aggiungere che la fede da sola non basta. È una virtù teologale, ma non per caso si unisce ad altre due, alla speranza e alla carità. E la attuale congiuntura storica ci chiede di avere un di più anche di queste due altre virtù.
Credere significa anche sperare.
E non c’è dubbio che oggi ci sia chiesta la forza e il coraggio di sperare. Se Gesù è risorto, se Gesù ha così potentemente affermato la vita, anche noi possiamo e dobbiamo sperare nella vita, nella sua ostinazione bellissima. Avremo mesi, forse anni difficili, magari di povertà. Ma chi dice che non possa essere anche una fase di riscoperta dell’essenziale, del semplice, di ciò che è umile e rischiavamo di non apprezzare più? Sperare, oggi, significa non solo confidare di uscire dalla attuale situazione; significa anche confidare che la nostra dimensione spirituale e la nostra presenza cristiana sapranno far tesoro nelle nuove condizioni che dovremo affrontare. E in esse brillare, dare speranza, essere speranza. La speranza, in qualche modo, dovrà essere la nostra modalità di stare dentro la storia. Sì, i credenti, più che mai, dovranno essere uomini e donne di speranza, con la speranza nel cuore, e quindi capaci di trasmetterla.

E generare anche carità, la terza virtù teologale. La carità è amore. Chi crede e spera più facilmente ha amore da dare, con quella levità e quel coraggio che proprio da fede e speranza si originano. Mai come nell’emergenza l’amore salva, consola, fa la differenza. E lo abbiamo visto, in tanti modi, concretamente, in queste settimane difficili. Nell’emergenza, una parola, un sorriso, una carezza valgono mille volte di più. Nell’emergenza, spesso, chi è ignobile si dimostra ancora più ignobile (penso alle speculazioni sulle mascherine, ai calcoli politici, alle miserie di chi cerca di approfittare della situazione). Per questo, serve che chi è nobile sia ancora più nobile, non si nasconda, non si arrenda. Se, anzi, noi cristiani sapremo compiere gesti di altruismo, generosità e grandezza, proprio in un momento difficile aiuteremo a crescere anche la speranza, e la fede, anche la fede di molti che non credono.
Tutte sono meravigliosamente unite, le tre virtù, intorno al sepolcro vuoto di Cristo.
Ecco, la Pasqua, Cristo Risorto ci chiedono di credere, di sperare, di amare, nonostante o proprio per la difficoltà dei tempi.
Con Cristo Risorto, pellegrino non riconosciuto sulla nostra stessa strada, e grazie a Lui, anche quest’anno, quest’anno più che mai, ripetiamoci che non praevalebunt. Davvero, le porte degli Inferi non prevarranno. Il male non prevarrà, se sapremo credere nel Dio di Gesù Cristo, è perciò sperare e amare.
È quello che ci auguriamo.

+ Egidio, vescovo.

 

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